Lavoro: siamo abbastanza digitali?
di Antonella Pellegrini - 08/02/2018

Il mercato del lavoro si fa sempre più digital: cambiano le competenze e i ruoli ricercati. I lavoratori sono pronti? Non sempre, purtroppo, e molti investono tempo e risorse economiche personali per aggiornarsi, quando le aziende non provvedono.

Molti dei lavori che ora conosciamo in futuro non esisteranno più. CareerCast , tempo fa, ha realizzato uno studio basandosi sui dati raccolti da Bareau of Labor Statistics. Si tratta per lo più di professioni che con lo sviluppo delle nuove tecnologie e l’avvento dell’era digitale, rischiano di estinguersi:  postino, lettore di contatori, agricoltore, giornalista, taglialegna, gioielliere, assistente di volo, operaio in fabbrica, assicuratore, sarto. E parliamo di un futuro neanche troppo lontano, il 2023.

Vediamo allora quali saranno invece le figure professionali  più richieste nei prossimi anni. Ovviamente, essere digitali è un imperativo. Un’indagine recentemente realizzata da Capgemini in collaborazione con LinkedIn evidenzia quelle che saranno le professioni digital più ricercate nel prossimo triennio. ‘The Digital Talent Gap – Are Companies Doing Enough?‘, questo il titolo del report in questione, analizza e confronta le competenze in ambito digital richieste dalle aziende e la loro effettiva disponibilità in settori e Paesi diversi.

I dati che emergono da questo studio dimostrano l’urgenza di colmare il gap relativo alle competenze digitali: se infatti quasi il 50% dei lavoratori coinvolti nell’indagine sta investendo nell’acquisizione di nuove competenze digitali, il 54% delle aziende intervistate è convinto che la carenza di talenti digitali stia danneggiando il proprio business.

Secondo lo studio, le imprese avranno un bisogno crescente di data scientist, chief analytics officer, data engineer, data architect, digital project manager, information security, chief digital information officer, chief customer officer, chief internet of things officer e personal web manager.

E i lavoratori?  I lavoratori non stanno a guardare senza agire. Il report svela le loro preoccupazioni nella valutazione delle proprie competenze digitali, oltre alla mancanza di risorse per la formazione messe a loro disposizione sul posto di lavoro. Tra gli aspetti più salienti, il report evidenzia il fatto che quasi il 50% dei lavoratori (percentuale che raggiunge il 60% per quei dipendenti con competenze digitali) sta investendo sia denaro che tempo libero per acquisire competenze digitali.

Il gap in ambito digitale

Tra le società intervistate nel report Capgemini-LinkedIn una su due riconosce che il gap sulle competenze digitali si sta espandendo. Infatti, più della metà (54%) delle aziende è d’accordo sul fatto che questo divario stia ostacolando i loro programmi per la digital transformation e di aver perso il loro vantaggio competitivo proprio a causa della carenza di talenti digitali.

Emerge anche la preoccupazione di molti dipendenti. Molti, infatti, ritengono che le proprie competenze siano ormai superate o che lo stiano per diventare. Complessivamente, il 29% dei lavoratori ritiene che siano già superate o che lo diventeranno entro due anni, mentre per oltre un terzo di loro questo succederà tra 4-5 anni.

Per quanto riguarda i settori applicativi, dal report si evince che il 48% dei lavoratori del comparto automobilistico pensano che le loro competenze diventeranno superflue nei prossimi 4-5 anni, seguiti da quelli dei settori bancario (44%), delle utility (42%), delle telecomunicazioni e assicurativo (entrambi al 39%).

Inoltre, i dipendenti credono che i programmi di formazione messi in atto dalle aziende non siano molto efficaci. Infatti oltre la metà degli attuali talenti in ambito digitale afferma che questi programmi non sono utili o che spesso non gli viene concesso il tempo necessario per potervi partecipare. Quasi la metà degli intervistati (45%) descrive i programmi formativi della propria azienda come “inutili e noiosi”.

Hard skill e soft skill

Le soft skills e le hard skills sono i primi parametri che vengono presi in considerazione nell’analisi del curriculum di un candidato.

Le hard skills sono le competenze che possono essere valutate rapidamente: livello dello studio, delle lingue, delle competenze ecc. Le soft skills, che si contrappongono alle hard skills, permettono di comprendere il comportamento che il candidato adotterà all’interno della vostra azienda, del gruppo e delle sue funzioni.

Secondo la ricerca, mancano i professionisti con esperienza in hard skill digital  in aree come advanced analytics, automazione, intelligenza artificiale e cybersecurity. Detto questo, caratteristiche sempre più importante per un professionista digitale – e di grande richiesta –  sono le soft skill digitali come la centralità del cliente e la passione per l’apprendimento

Dal report, inoltre, emerge che: anche se il 51% dei dipendenti ritiene che nella propria azienda ci sia una mancanza di hard skill digitali, allo stesso tempo, il 59% degli intervistati sottolinea anche una carenza di soft skill. Sette lavoratori su dieci con competenze digitali (72%) preferiscono lavorare per società che hanno una cultura imprenditoriale che promuova agilità e flessibilità, come quella della startup.

È molto improbabile che le competenze digitali prosperino in un ambiente caratterizzato da mancanza di libertà di sperimentare e fallire. Qualora non dovesse esistere una cultura basata sulla sperimentazione ne risentirà anche l’innovazione.

Gli Influencer

Con il successo dei social network, sono nate nuove professioni che solo pochi anni fa non esisteva proprio. Parliamo del social media manager, cioè la figura che gestisce i social media per conto di un’azienda, un brand o un personaggio pubblico, e che ne definisce i piani editoriali e di marketing. Anche il social media editor è in ascesa, con un ruolo più esecutivo. E in un’era sempre più dominata dagli smartphone e dalle app, già da anni sono al lavoro gli sviluppatori mobile, informatici in grado di programmare i dispositivi mobili e le relative applicazioni. Sempre nel settore del web negli ultimi anni sono emerse le professioni di specialista di web analytics, cioè il professionista in grado di leggere ed interpretare tutti i dati di traffico dei siti web, e lo specialista SEO, cioè l’esperto in grado di migliorare il reperimento delle pagine web attraverso i motori di ricerca.

Il web ha creato nuove professioni come l’Instagrammer, un esperto di Instagram, l’app dedicata alle foto che sta andando per la maggiore, ed è nata la figura dell’influencer.

Un influencer è un utente con migliaia (se non milioni) di seguaci sparsi sui vari social network: YouTuber, un Instagramer, un blogger o avere semplicemente una pagina su Facebook o Twitter dove condivide foto, video e contenuti vari. Si distingue rispetto a altri molto seguiti, perché in  grado di influenzare i suoi follower. Affinchè sia possibile, deve avere moltissimi follower, crea contenuti di interesse e in grado di generare moltissime interazioni, ma soprattutto deve essere affidabile e credibile.

Smart working

Lo Smart Working in Italia è già una realtà e prevede flessibilità sul luogo e sugli orari di lavoro per i dipendenti. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali dallo scorso 15 novembre ha reso possibile anche registrare gli accordi di smart working tra lavoratore e datore di lavoro direttamente online sull’apposita piattaforma.

Secondo l’indagine svolta dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, gli smart worker nel 2017 risultano in crescita del 14% rispetto all’anno precedente, e ben del 60% rispetto al 2013.

Gli smart worker sono ormai 305.000 – l’8% del totale dei lavoratori del campione e si distinguono per maggiore soddisfazione per il proprio lavoro e maggiore padronanza di competenze digitali rispetto agli altri lavoratori.

Cresce l’adozione dello Smart Working tra le grandi imprese: il 36% ha già lanciato progetti strutturati (il 30% nel 2016),e una su due ha avviato o sta per avviare un progetto, ma le iniziative che hanno portato veramente a un ripensamento complessivo dell’organizzazione del lavoro sono ancora limitate e riguardano circa il 9% delle grandi aziende. Anche tra le PMI cresce l’interesse, sebbene a prevalere siano approcci informali: il 22% ha progetti di Smart Working, ma di queste solo il 7% lo ha fatto con iniziative strutturate; un altro 7% di PMI non conosce il fenomeno e ben il 40% si dichiara “non interessato” in particolare per la limitata applicabilità nella propria realtà aziendale.

Secondo il Politecnico di Milano, se il 70% dei potenziali smart worker italiani passasse al lavoro agile, la produttività pro capite potrebbe aumentare del 15%. E questo non sarebbe un bene solo per i singoli lavoratori e per le singole imprese, ma anche per il ‘Sistema Paese’, in quanto quella produttività in più equivarrebbe a 13,5 miliardi di euro di benefici indotti per il Paese. E lo smart worker, inoltre, diminuisce gli spostamenti, inquinando di meno. Sono del resto sempre di più le imprese italiane che aprono verso lo smart working: Generali Italia, Zurich, Enel, Bmw, Benetton, Mars Italia, Ferrero, Axa, la lista si allunga di giorno in giorno.

 

Se Industria 4.0 si è focalizzata sull’implementazione delle tecnologie abilitanti, l’Industria 5.0 si estende ed abbraccia le problematiche socio-ecologiche.

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